“Oggi si conosce il prezzo di tutto e il valore di niente”
Questo aforisma di Oscar Wilde, scritto nel 1900, è più che mai attuale, e vale anche in modo particolare per l’arte contemporanea, che attira l’attenzione del pubblico per i mirabolanti record d’asta degli artisti più celebri e mediatizzati, tra cui svetta Jeff Koons.

Basti ricordare l’escalation vertiginosa delle sue quotazioni. Nel 1991 un lavoro della serie The New (tre aspirapolveri nuove in una teca di plexiglass) arriva a 184mila dollari.

Nel 2001 un museo privato di Oslo compra a 5,6 milioni di dollari Michael Jackson and Bubbles, un ritratto in ceramica dorata del cantante con il suo scimpanzé.
Nel 2007 Hanging Heart , un enorme cuore rosso con nastri (icona pop di San Valentino) viene battuto a 21 milioni, e l’anno successivo i Tulips giganti a 33,6 milioni.

E infine, nel novembre 2013, uno dei cinque Balloon Dog (diversi solo per il colore), monumentalizzazione metallica di un cagnolino fatto con palloncini a forma di salsiccia, raggiunge l’incredibile cifra di 58,4 milioni.

Queste sculture sono una visione complessiva della ricerca di Koons, che si sviluppa coerentemente nel segno dell’estrema banalità tematica, dell’assoluta freddezza inespressiva, dell’esaltazione feticistica degli oggetti , e del trionfo del vuoto interno “vacuum” e della “pura superficialità” esterna lucida, splendente, coloratissima.
Dall’altro lato, quello più cinico, è una dichiarata accettazione dell’equazione “arte = business“, dell’opera d’arte come efficace feticcio per il mercato del lusso. C’è una carica critica nei lavori di Koons, che sono simboli emblematici dell’attuale vuoto culturale dominante, ma rischia di essere vanificata dallo loro completa reificazione come “idoli” della religione del mercato.